Come fate senza la scuola?

[Della scelta di rinunciare al percorso di scolarizzazione istituzionale e seguire percorsi meno battuti]

In questo articolo ho scelto di utilizzare il genere femminile quando parlo in generale  di bambini e bambine al posto del maschile nel tentativo di generare una riflessione sul linguaggio che possa essere volano per il cambiamento.

L’articolo scritto da Ersilia e un paio di scambi telefonici con degli amici mi portano ad avere bisogno di mettere nero su bianco alcuni pensieri inerenti alla decisione di non iscrivere Giacomo e Anita a scuola.

Molte persone sono incuriosite da questa scelta e quando poi scoprono la mia professione, la curiosità si trasforma, talvolta, in perplessità.

<< Ma come proprio tu che ci lavori?!>>

<< Sì, proprio perché ci lavoro!>> è la mia risposta.

Conosco bene il mondo scolastico. Faccio il maestro da più di dieci anni. Nella scuola (oltre agli anni trascorsi come studente) ci lavoro da oltre vent’anni sia come educatore, come conduttore di laboratori e come formatore.

Per l’esperienza che ho maturato mi sento di poter dire che la scuola non è il luogo migliore in cui imparare.

Non è mia intenzione però criticare in questo articolo l’istituzione scolastica né tantomeno chi sceglie di affidarcisi. Vorrei piuttosto spiegare quali sono le motivazioni che ci hanno portato a intraprendere un percorso di descolarizzazione e come sia possibile che nostro figlio e nostra figlia imparino nonostante non frequentino la scuola.

Una frase che mi sento spesso rivolgere è << Vabbè ma tu sei un maestro, ci pensi tu ad insegnargli>>.  Niente di più lontano dalla realtà. Facevo già fatica a sostenere questo ruolo a scuola. Ho lavorato a lungo per destrutturami, per scendere dalla predella (si usa ancora in poche scuole ma sopravvive nella testa di molti colleghi) e svestirmi dei panni dell’insegnante. Finché mi è stato possibile farlo ho eliminato la cattedra dalla mia aula, ho ripensato gli arredi, ho abolito astucci e compiti, me ne sono fregato dei programmi, ho introdotto da subito l’autovalutazione e la possibilità di personalizzare il curricolo. Ho sempre trascorso molto tempo fuori dall’aula. Ho dato tanto spazio al gioco. Ho privilegiato gli aspetti emotivi e relazionali a quelli didattici.

Come padre mi è venuto spontaneo non voler diventare il maestro dei miei figli.

Sono convinto che un maestro o un genitore (ma più in generale una persona) possa favorire l’apprendimento nel momento in cui smette di insegnare. Solo se si cambia prospettiva e ci si sposta da una posizione frontale, direttiva, la relazione tra adulto e bambina può generare un apprendimento che sia duraturo, carico di senso, autentico e, non ultimo, gioioso.

Ho fatto in modo che la scuola non interferisse con la mia educazione.

Mark Twain

Scegliere l’autoapprendimento vuol dire, innanzitutto, considerare l’apprendimento un fenomeno normale ed inevitabile. Come respirare, pensare o parlare.

Vuol dire disimparare tutto ciò che abbiamo interiorizzato nella nostra esperienza di persone scolarizzate.

Vuol dire contemplare la possibilità che la scuola non sia l’unico (o il migliore) ente preposto alla formazione.

Scegliere l’autoapprendimento vuol dire dare importanza al gioco spontaneo.

Il gioco è per le bambine, come per tutti i cuccioli di mammifero, la prima modalità utilizzata per imparare.

Peter Gray ha condotto uno studio per comprendere il gioco in quanto metodo di apprendimento e nel suo imprescindibile libro “Lasciateli giocare” ha raccolto molteplici ricerche ed esempi a sostegno della tesi secondo cui le bambine “giocando imparano ad assumere il controllo della propria vita”. [Peter Gray, Lasciateli giocare, Einaudi, 2015]

Quando gli viene data l’opportunità di giocare, di sperimentare e di dirigere i propri percorsi di apprendimento fioriscono letteralmente davanti ai nostri occhi. Sovente noi adulti siamo obnubilati, la nostra visione si fa opaca, viziata com’è dalle aspettative e dalla cultura in cui siamo cresciuti.

Quello che ormai da anni vado ripetendo a docenti e genitori durante i miei corsi di formazione è che il gioco è nutrimento fondamentale per diverse componenti della persona: emotive, relazionali e cognitive.

Ogni bambina si merita di poter crescere e imparare guidata dalla meraviglia e dallo stupore.

Troppo spesso la scuola, con i suoi tempi serrati, con gli obiettivi e gli strumenti uguali per tutti, con le valutazioni sommative (e sommarie), si concentra sul prodotto anziché sul processo.

Certamente la scuola dà sicurezza. Delegare ad altre persone ritenute “specializzate” contribuisce a mettere a tacere molti dubbi.

Diverse persone mi hanno confidato che la paura che li porta a prediligere un percorso eterodiretto (quello in cui sono solo gli adulti che scelgono, dirigono, controllano, valutano) è alimentata da domande tipo: impareranno comunque? E se giocano e basta? Sono in grado di seguirle abbastanza? Gli do abbastanza stimoli?

Forse anche nel nostro modo di essere genitori dovremmo assumere  un atteggiamento minimalista e fare nostra la massima dell’architetto Ludwig Mies van der Rohe “Less is more”…

Mi sorge un dubbio: è forse per contrastare la nostra personale paura che cerchiamo in tutti i modi di attrezzare i nostri figli contro le incertezze del futuro?

Nel tentativo di riempire le loro giornate non lasciamo alle bambine il tempo di vivere la loro infanzia.

Stiamo già pensando al loro futuro. Cosa farà da grande? Riuscirà a cavarsela? Avrà successo?

Anziché tormentarci (e tormentarle) con questi pensieri sarebbe forse meglio focalizzarsi sul qui e ora e provare a capire chi sono oggi le nostre figlie anziché progettare cosa faranno domani.

Lasciare che le bambine guidino i propri percorsi di apprendimento prevede un ingrediente fondamentale: la fiducia.

Io la intendo in tre direzioni.

Occorre avere fiducia nelle nostre figlie. Nella loro innata predisposizione a imparare. Nella loro curiosità che le porta a voler scoprire il mondo e a capire come funziona. Nella loro capacità, man mano che crescono, di discriminare ciò che ritengono utile, interessante, funzionale alle loro ambizioni e scelte di vita.

Occorre avere fiducia in noi stessi. Riscoprire e coltivare la nostra competenza genitoriale. Saper sostare, ascoltare, osservare. Riuscire a fare qualche passo indietro rispetto alle nostre aspettative per lasciare  spazio a quelle delle piccole persone che abbiamo generato. Accogliere le loro inclinazioni, i loro interessi, i loro desideri anche se non coincidono coi nostri. Dovremmo riuscire, parafrasando Maria Montessori, a rimuovere gli ostacoli che potrebbero interferire con il loro apprendimento anziché scavare il solco entro il quale vorremmo condurlo, dirigerlo, imbrigliarlo.

Occorre, infine, avere fiducia nel mondo. Lasciare che ogni incontro porti qualcosa di nuovo, di arricchente. Mi piace pensare che altre adulte e bambine possano essere di stimolo per la curiosità dei nostri figli. Mostrargli cose che io non so o che non amo.

È questo che intendo quando dico che non abbiamo bisogno di maestri ma di persone appassionate ed appassionanti. Persone curiose, capaci di trasudare stupore, di suscitare interesse, di inventare storie e nuovi mondi possibili.

Occorre fiducia.

Se viene a mancare questa fiducia si finisce per vivere accompagnati dalla preoccupazione di non stare facendo abbastanza, di non dare alle nostre figlie tutto ciò di cui hanno bisogno. Ma siamo proprio sicuri che ciò di cui hanno bisogno sia la scuola? Perché? Solo perché “Ci siamo andati tutti” o “si è sempre fatto così”? (punto che meriterebbe un approfondimento visto che la scuola per come la conosciamo e l’abbiamo frequentata noi esiste solo da 3 secoli circa).

Scegliere la scuola, dicevo, vuol dire scegliere di delegare.

Affidarsi ai “professionisti dell’educazione” vuol dire alleggerire il nostro carico di responsabilità genitoriale.

Noi questa delega non la vogliamo praticare. Vogliamo riappropriarci, per noi e per i nostri figli, del diritto di scegliere cosa-quando-come-dove imparare. Lo facciamo di giorno in giorno. Nel pieno rispetto dei nostri tempi, dei nostri interessi delle nostre passioni.

Scegliere l’autoapprendimento significa, secondo me, essere disponibili ad accogliere il caos, il disordine, le attività lasciate a metà, i rifiuti alle proposte. Significa rinunciare alla linearità, agli schemi, alle tabelle, agli orari fissi, ai programmi.

È ormai assodato che l’apprendimento non è un processo lineare. Impariamo per tentativi, accomodamenti, salti avanti e indietro. Scopriamo una cosa mentre ne cercavamo un’altra.

Quando, nei percorsi di formazione rivolti agli insegnanti, chiedo di rappresentare graficamente l’apprendimento, l’immagine che prevale è quella di una linea retta che si muove da sinistra a destra, spesso con moto ascendente.

Personalmente lo visualizzo come una spirale. Rende meglio l’idea di un processo ricorsivo che torna sui propri passi e gradualmente aumenta di complessità.

Scegliere l’autoapprendimento significa allenare lo sguardo.

Vedere apprendimento dove altri vedono tempo perso.

I nostri figli imparano sempre e comunque. Anche a prescindere da noi.

Anita ha imparato a riconoscere le lettere, ad unirle per formare parole, a leggerle e a scriverle. L’ha fatto perché ne era incuriosita. Nessuno glielo ha imposto. Né io né Ersilia le abbiamo detto che avrebbe dovuto farlo perché “ti servirà da grande”.

La stessa cosa è accaduta a Giacomo.

Pur non manifestando grande interesse per la letto-scrittura ha comunque appreso a leggere e scrivere seguendo le proprie motivazioni e i propri tempi. Negli ultimi giorni ha riscoperto l’amore per i fumetti e in due giorni si è letto tre albi di Diabolik.

Per contro ha sempre avuto uno spiccato interesse per i numeri, per i calcoli e, più in generale, per la logica matematica.

Non so dire esattamente da dove sia nata questa passione. Non ci siamo pre-occupati di dirigerla, di formalizzarla. L’abbiamo assecondata. Abbiamo dato insieme un nome alle cose.

Scegliere l’autoapprendimento vuol dire assolvere al proprio ruolo di genitori. Vuol dire dare il buon esempio.

La nostra casa e il nostro camper sono pieni di libri. Abbiamo sempre letto per i nostri figli e continuiamo a farlo quando ce lo chiedono. Lo facciamo perché ci piace, perché crediamo sia un importante veicolo di emozioni e rinforzi la nostra relazione. Non ho mai pensato per un solo minuto di rifiutare di leggere per loro per fare in modo che fossero spronati a imparare leggere da soli.

Il piacere per la lettura, e forse ancor di più il suo aspetto relazionale, è emerso da qualche mese a questa parte anche nella proposta che talvolta i nostri figli ci hanno rivolto di voler leggere per noi.

Durante questi mesi, così come durante la frequenza a g.a.i.a., non abbiamo mai deciso a priori cosa i nostri figli avrebbero dovuto imparare. Non seguiamo nessun programma. Quando facciamo delle proposte è, nella maggior parte dei casi, sulla base degli interessi che abbiamo visto emergere in loro. Altre volte sono i nostri interessi e le nostre passioni a portarci a coinvolgerli in alcune esperienze. L’esposizione ad un ambiente ricco di stimoli differenti può generare curiosità e voglia di conoscere. Man mano che si presentano nuovi interessi e spunti interessanti cerchiamo di coglierli, di stare in ascolto e di rilanciarli con nuove esperienze, nuove scoperte.

Faccio un esempio: inizialmente non avevamo messo in programma di andare a Parigi. Tendiamo ad evitare le grandi città perché non sono sempre facili da visitare col camper.

Anita e Giacomo volevano salire sulla torre Eiffel che spesso avevano visto in uno dei loro cartoni animati preferiti.

Grazie anche alla generosa donazione della famiglia di Ersilia ci siamo potuti permettere di accogliere la loro richiesta.

Per Giacomo si è trasformata in un’occasione per dare seguito ai suoi interessi: contare i gradini, informarsi sulle misure, confrontarle con altri monumenti, osservare gli enormi bulloni, interrogarsi sul funzionamento dell’ascensore. Anita, guardandosi intorno alla ricerca di Ladybug, si è lasciata suggestionare dalla maestosità e dall’imponenza della torre che è stata oggetto dei suoi disegni nei giorni successivi. Si è poi dovuta cimentare con i calcoli volendo acquistare i celebri macarons nel bar (costosissimo!) del secondo piano.

A questa esperienza abbiamo affiancato la visita a due musei (Pompidou e D’Orsay) che loro non avrebbero probabilmente visitato. Non era nostra intenzione istruirli sulla storia dell’arte ma inevitabilmente il nostro entusiasmo e l’immersione in una dimensione estetica li ha profondamente coinvolti. A distanza di tempo hanno richiamato alla memoria quelle esperienze, menzionando quadri, autori e stili.

Crediamo che non serva essere dei tuttologi, ce ne sono già troppi al mondo, e che se anche i nostri figli non impareranno tutto ciò che potrebbero imparare a scuola sapranno colmare eventuali lacune, se lo vorranno. Prediligiamo la qualità alla quantità. Non esistono, a mio modo di vedere, saperi imprescindibili. Ciascuno impara ciò che gli serve per stare a proprio agio nella società in cui vive.

Quello che con Ersilia cerchiamo di fare è semplicemente stare. Stare a guardare: osserviamo i nostri figli che imparano con curiosità e gioia. Così come abbiamo fatto quando hanno imparato a parlare o a camminare. Stiamo nello stupore. Stiamo nell’attesa. Stiamo nella noia, nella frustrazione.  Lavoriamo su di noi piuttosto che sui nostri figli. Abbiamo imparato (o meglio stiamo imparando) a rinunciare alle aspettative sulle persone che saranno, che vorremmo diventassero.

Stare vuol dire anche essere presenti, svegli, consapevoli, disponibili. Significa allenarsi ad osservare, essere in ascolto, avere l’umiltà di ammettere di non avere tutte le risposte ma al contempo essere disponibili a porsi nuove domande, a dubitare, ad accogliere ipotesi che ad uno primo impatto possono sembrare assurde.

L’esperienza del viaggio ci ha confermato che è un contesto particolarmente favorevole. Ci piace essere aperti agli incontri e alle novità che questo tipo di esperienza ci riserva.

Siamo dei privilegiati, lo sappiamo.  Siamo anche consapevoli, però, che le cose non accadono per caso. Fare questo viaggio è stata una scelta.

Abbiamo dovuto rinunciare ad alcune cose (tipo lo stipendio…) a favore di un’esperienza che ci ha arricchito, ci regalato tanta bellezza e la ricorderemo per tutta la vita.

Scegliere l’autoapprendimento è, in definitiva, un grande salto nel vuoto.

Vuol dire abbandonare la strada battuta per avventurarsi lungo sentieri poco esplorati e poco frequentati.

È una scelta costellata di domande, di responsabilità e di fatiche.

Tutto ciò che osserviamo ci incoraggia e ci sprona a continuare a percorrere questo sentiero. Speriamo di incontrare un numero sempre maggiore di uomini e donne che abbiamo voglia di camminare con noi.

Avanti così!

Incroci

Ci sono luoghi e momenti in cui la propria traiettoria di viaggio si incrocia e incontra con traiettorie altrui.

Nel corso di questi mesi abbiamo incontrato tante persone provenienti da luoghi diversi e che per diversi motivi si sono messe in viaggio.

Nel grande parcheggio sterrato vicino alla spiaggia “Las tres piedras” di Chipiona in Andalusia, a pochi passi dall’oceano, abbiamo fatto un piacevolissimo incontro con una famiglia francese.

Complice la loro simpaticissima bambina, Louleya di 3 anni, con cui abbiamo “attaccato bottone” per poi passare dei piacevoli momenti in un panorama di tranquillità e bellezza.

È stata una genuina compagnia fatta di semplici momenti: passeggiate sulla spiaggia alla ricerca di conchiglie e piccole creature marine da osservare, giochi con sabbia, acqua e argilla, disegni e ombre sulla sabbia, qualche pranzo condiviso e tante chiacchere…

Bello ritrovarsi a condividere percorsi di viaggio, aneddoti e racconti di luoghi e paesi sparsi per l’Europa ma anche percezioni e visioni del mondo e della scelta di mettersi in viaggio, alla ricerca di sogni, possibilità ma anche solo un’esperienza di vita arricchente per il cuore e la mente!

Sì perché Céline, Julien e Louleya sono in viaggio in Europa da 2 anni e ancora hanno davanti un tempo indefinito… Gli auguriamo di seguire i loro sogni, il vento e trovare tanta gioia!

Ci siamo ritrovati a condividere pensieri sullo stile genitoriale e più in generale sull’educazione. 

Céline è un’educatrice professionale che osserva e si interroga molto sul percorso di apprendimento di Louleya, incuriosita ad approfondire approcci divergenti/ diversi/alternativi.

Anche la nostra Joy ha trovato un attraente compagno, il loro Pumba un vecchio Mercedes con esperienza e fascino!

Dopo qualche giorno dalla nostra partenza ci siamo rincontrati a Tarifa dove abbiamo aperi-cenato, a base di un ottimo mojito preparato da Julien e un risotto (con accento sulla ó) alla zucca, in 7 su Joy!

Il giorno seguente ci siamo dovuti salutare perchè per noi è arrivato il momento di prendere la direzione verso casa altrimenti avremmo avuto piacere a condividere ancora del tempo insieme!

Con la speranza di rincontrarci da qualche altra parte del mondo ci siamo salutati con un tocco di scintillante colore, piccole palle di colore e stelline filanti, per cui ci è valsa la graziosa nomina di “Famille Fuochi d’artificio”! 

Altro incontro degno di nota, interessante ed arricchente, è stato quello di conoscere e confrontarsi con chi questa scelta l’ha fatta da tempo. 

Un’affabile e accogliente coppia originaria di Hamburg, che ormai da tanti anni trascorre l’inverno tra le coste portoghesi e quelle spagnole.

Viaggiatori da sempre, Uli e Marlies, macinano chilometri a bordo di un Phoenix-Man di nome Baloo che in confronto alla nostra Joy sembra un transatlantico.

Sono arrivati a questo mezzo dopo averne avuti diversi, tutti uno più bello e caratteristico dell’altro, che ci hanno mostrato orgogliosi in fotografie (stampate su carta!).

Uli ci ha anche fatto vedere i modellini in scala che ha personalmente costruito con tanta pazienza e passione.

In quanto viaggiatori veterani ci hanno un po’ adottato e coccolato a mo’ di benedizione per i prossimi viaggi.

Come nelle migliori barzellette la sera prima di partire abbiamo fatto un aperitivo di saluto internazionale: con rappresentanti di Francia, Germania, Inghilterra e Italia abbiamo brindato ai viaggi, agli incontri e alla bellezza del mondo. Salute!

Come fate con la scuola?

Questa è una delle domande più frequenti che riceviamo, a cui stiamo formulando una risposta a fronte di ormai sei mesi di viaggio.
Un po’ lo immaginavamo, e ora ne abbiamo la conferma, che viaggiare è occasione continua e costante di apprendimento, un po’ come essere costantemente  immersi in un “sussidiario”.
Si continua a inciampare in spunti per osservare, porsi domande, formulare ipotesi e scoprire…

La geografia si studia attraversandola fisicamente e osservando luoghi e mappe. Dopo un attimo di indecisione su dove mettere la cartina dell’Europa acquistata poco prima di partire, abbiamo deciso di attaccarla sul tavolo dove facciamo colazione, pranziamo e ceniamo. Averla costantemente sotto gli occhi permette di familiarizzare con nomi di stati, città, facendo diverse considerazioni su vicinanza, distanze e caratteristiche…
Le distanze hanno stimolato conteggi vari rispetto ai km percorsi o da percorrere.

La maggior parte delle città attraversate sono un’immersione nella storia, talvolta stratificata in tempi ed epoche diverse…
Siamo entrati in contatto diretto con molte epoche della storia europea.
Abbiamo fatto un viaggio un po’ a ritroso dato che una delle prime visite fatte è stato al campo di sterminio Auschwitz-Birkenau, dove la trattazione della Seconda Guerra Mondiale era inevitabile.
Siamo poi ripartiti dalla preistoria visitando il sito archeologico con le incisioni rupestri di Alta in Norvegia e nei Paesi Baschi abbiamo visitato una caverna con rappresentazioni di animali e scene di caccia.
A Vitoria-Gasteiz abbiamo visitato il museo archeologico attraversando le epoche della preistoria (pietra, bronzo e ferro), della storia fino all’impero Romano alla sua decadenza e all’inizio del Medioevo.
In Spagna stiamo trovando spesso siti archeologici di epoca romana.
Giacomo è molto affascinato e incuriosito dall’estensione territoriale del Sacro Romano Impero, più volte ha voluto vedere la cartina e ha chiesto i motivi della sua espansione, potenza e poi decadenza.


I luoghi sono una stratificazione affascinante, non sempre semplice da focalizzare, di eventi storici, incontri e scontri tra popolazioni e culture differenti che tra loro si sono influenzate.
Attraversare l’Europa permette di affrontare e parlare della storia dell’Uomo dalla sua nascita ai giorni nostri senza poterla scindere dalla storia, ancora più antica e non meno affascinante, della terra.
È un intreccio continuo e costante che dá modo di avvertire quanto il sapere sia strettamente connesso con le diverse discipline, da quelle più scientifiche a quelle più umano-sociologiche, che raccontano e spiegano il mondo.
Ad esempio di questo continuo richiamo tra discipline, abbiamo parlato di civiltà della Mesopotamia osservando un quadro di Anselm Kiefer, con diretto riferimento ai fiumi Tigri ed Eufrate.
È stato un ottimo pretesto per scoprire un pezzetto di storia extraeuropea imprescindibile.

In molti paesi che abbiamo attraversato siamo approdati alle biblioteche che, nonostante non padroneggiassimo la lingua, ci hanno dato un prezioso supporto per approfondire o reperire immagini esemplificative di argomenti su cui ci eravamo precedentemente interrogati…

Per quanto riguarda le lingue ne abbiamo incontrato una svariata gamma, in ogni stato visitato abbiamo cercato di imparare come si dice “buongiorno, grazie” e qualche parola di uso comune (spesso cibo!).
Ci siamo anche “scontrati” con il fluido utilizzo dell’inglese da parte di moltissime bambinə e adultə del nord Europa.
I nostri figli e noi in parte non godiamo dello stesso grado di conoscenza.
Dopo una iniziale resistenza, sentendo anche noi parlare spesso e volentieri in inglese, hanno incominciato a sviluppare curiosità e pian piano incominciano a familiarizzare con qualche parola e semplici frasi e a utilizzarle in modo pertinente.
Ogni tanto nei loro giochi introducono qualche parola o frase straniera.
Sicuramente per imparare le lingue ci vuole un po’ di intraprendenza, applicazione e tanta pratica ma ci auguriamo che questo viaggio possa creare in loro la curiosità e lo stimolo per altri modi di dire e raccontare il mondo!

(Giacomo proponeva una possibile soluzione dicendo che “Bisognerebbe parlare, oltre alla propria lingua, quella dei paesi vicini!”
Anita mi ha detto “quando torneremo parleremo tutte le lingue dei posti che abbiamo visitato”.)

Incontrare diverse e nuove lingue è stato indirettamente un modo anche per consolidare e apprendere maggiormente la propria lingua, acquisendone maggiori sfumature e vocaboli.

I diversi musei d’arte che abbiamo visitato, tra Parigi, Guernica e Bilbao, ci hanno offerto di scoprire il patrimonio del linguaggio espressivo dell’arte che inevitabilmente si intreccia con quello storico, sociale, culturale.

Dunque sul potenziale formativo del viaggio credo non ci siano troppi dubbi.
L’unica cosa che rende completamente differente il processo di apprendimento scolastico da quello informale è che non si sa preventivamente quale sarà la scansione degli argomenti e dei temi.
Non c’è un linea temporale consequenziale poiché l’apprendimento è nel fluire dell’incontro, della curiosità e delle domande con cui attraversiamo -entrando e uscendo, come fossero piscine in cui immergersi- i saperi!

Cosa faremo quando torneremo?

Dopo sei mesi dalla nostra partenza il rientro si fa più vicino. Oggi abbiamo giocato pensando a cosa ci piacerebbe fare una volta a casa.

Abbiamo appeso dei fogli e ognuno di noi scriveva ciò che voleva.

Alla fine, rileggendoli, abbiamo raggruppato le cose simili.

 Ne sono venuti fuori sei elenchi.

Cose da fare:

  • Andare a passeggiare alla “Zoca dei Pirutit
  • Incontrare gli amici e i parenti e fare festa insieme
  • Stampare le foto del viaggio
  • Andare al cinema
  • Andare in libreria
  • Un corso di tiro con l’arco
  • Accendere il fuoco nel nostro braciere
  • Andare allo skatepark
  • Andare in piscina
  • Farsi fare un bel massaggio (regalo di Babbo Natale)
  • Montare le interviste che abbiamo realizzato per farne un documentario
  • Danzare!

Cose da mangiare:

  • Tiramisù
  • Lasagne
  • Gelato
  • Anguria
  • Pizza e focaccia
  • Gli spaghetti aglio, olio e peperoncino di Tanino
  • La crostata di mele di Antonietta
  • Arrosticini

Giochi da fare:

  • Catan
  • Ticket to ride
  • Lego 24/24
  • Dixit
  • Dummy
  • Gioco dei mimi
  • Risiko

Cose da imparare:

  • Lavorare a maglia
  • Imparare meglio l’inglese
  • Imparare il finlandese
  • Imparare i nomi degli alberi in tante lingue
  • Suonare uno strumento
  • Disegnare
  • Nuotare bene

Buoni propositi:

  • Dire ai miei genitori che gli voglio bene
  • Meditare: contemplare e praticare
  • Esprimere in modo chiaro i miei bisogni
  • Vivere con meno. È comunque abbondante
  • Camminare almeno un po’ tutti i giorni
  • Celebrare le cose belle della vita
  • Smettere di fare elenchi di buoni propositi
  • Continuare a sognare in grande

Prossimi viaggi:

  • Grecia e Turchia
  • Georgia
  • Argentina
  • Giro del mondo in 6 mesi con i mezzi pubblici
  • Camino di Santiago e Via della Plata
  • Andare in India per vedere le tigri e in Africa per vedere i leoni
  • Ovunque. Purché a piedi

Una passeggiata nella Storia

A Merida abbiamo fatto un tuffo nel passato di più di 2000 anni.
Ci siamo immersi nella Storia, nelle radici che ci hanno originato e ci costituiscono.
Nel mondo degli “antenati” (come dice Anita), dei quali il processo evolutivo ci appartiene poiché se oggi siamo ciò che siamo lo dobbiamo a chi realmente e simbolicamente la strada della vita l’ha compiuta prima di noi.

Fondata dai Romani nel 25 a.C., Merida è un patrimonio inestimabile di reperti archeologici di straordinaria bellezza!
Riportata alla luce nei primi anni del ‘900, dopo essere stata sepolta sotto 8 metri di terra e vegetazione.
È possibile visitare il teatro, l’anfiteatro, il circo , l’acquedotto e alcune case patrizie.

Incredibile ammirare le costruzioni imponenti e maestose, segno di una civiltà ricca di competenze tecniche e gusto estetico.
I Romani usavano già una sorta di “cemento”, ottenuto mischiando limo, ciottoli e sabbia di fiume, per unire tra loro grossi blocchi di granito.
Abili e ingegnosi costruttori sfruttarono la naturale pendenza del terreno per creare le gradinate dell’anfiteatro e del teatro.
La funzionalità dell’edificio assunse regalità e sfarzo grazie alle decorazioni di colonne in stile corinzio, statue e fregi in marmo finemente scolpite.
Nelle case patrizie ci hanno incantato i mosaici che impreziosivano i pavimenti interni e del patio.
Vere opere di pazienza e maestria!

Più volte ci siamo ritrovati a ripetere, nello stupore, quanto meravigliosi fossero queste opere di un’epoca tanto lontana.
Questo merito va attribuito anche alla natura, che coprendole con terra e vegetazione, le ha preservati per secoli.
Poter camminare sui ciottoli o lastroni di granito costruiti e percorsi per centinaia d’anni dagli antichi personalmente, oltre a stranirmi, mi suscita emozione.
Mi fa sentire parte del cammino dell’Uomo nella sua evoluzione storica e sociale.

Tanta bellezza della cultura romana, di cui Giacomo sembra particolarmente curioso e affascinato, si è accompagnata ad alcune considerazioni di carattere etico.
La prima è rispetto all’ambivalenza della presenza romana che è stata, comunque e a parte tutto, di dominio e affermazione di una civiltà su quelle autoctone già esistenti.
L’altra è rispetto alla funzionalità del luogo dell’anfiteatro: l’attività ludica, di intrattenimento e divertimento si basava su duelli tra gladiatori, che erano di per sé prigionieri di guerra o schiavi.
Se per gli spettatori era un divertimento, per chi combatteva un obbligo e una questione di vita o di morte!
Abbiamo ragionato con Giacomo su come il dominio e la supremazia sia sempre stata un elemento tristemente distintivo della specie umana.

Crediamo che il grande valore di conoscere e scoprire la Storia sia quello di poter riflettere su modalità di vivere, scelte, pregi e limiti culturali e sociali che le diverse culture hanno saputo immaginare e realizzare.

Il senso dell’arte

Poco prima di Natale abbiamo visitato il Museo di Arte Contemporanea Basca a Vitoria-Gasteiz.

Anita indicando un’opera (un tavolino in legno) chiede: “ma un tavolino è arte?”


Poi aggiunge: “Beh se lo è una ruota di bicicletta, può esserlo anche un tavolino!” riferendosi all’opera di Duchamp vista qualche settimana prima al Centre Pompidou a Parigi.

Oltre a porre una domanda legittima che apre la questione sulla leggibilità comunicativa dell’arte, mi fa pensare a come il linguaggio artistico possa essere esperito e appreso andando per mostre e musei, guardando e accogliendo il punto di vista altrui, interrogandosi sul messaggio che l’artista vuole comunicare e sensibilizzando il proprio intuito a mettersi in ascolto delle emozioni che un’opera suscita.
È un invito ad osservare, ascoltare e percepire colori e forme a livello sensoriale.

Proprio al Beauburg avevamo potuto vedere il passaggio tra arte figurativa e gli albori delle avanguardie del Novecento in cui le immagini incominciavano a perdere le loro fattezze riconoscibili. Picasso gioca con i diversi punti di vista sulla natura.
Un processo di smaterializzazione, come nei giochi di forme e colori di Kandinsky, fino a diventare completamente astratta e concettuale, a tratti provocatoria, per scuotere le coscienze come nella corrente dadaista dove si incomincia a perdere il limite tra ciò che è arte e ciò che non lo è!
Il percorso ci ha condotto a vedere come, dopo questo processo di scomparsa della figura, si torna ad un’immagine profondamente trasformata, tanto da diventare surreale e metafisica…
Un percorso di poco più di cento anni con una varietà espressiva ampissima, complessa e profondamente intrecciata con gli avvenimenti storici salienti del XX secolo.
Giacomo e Anita si sono fatti trasportare in questa narrazione umana ed espressiva, accogliendola come una storia fantasiosa, a tratti bizzarra che alimenta e trova riscontro anche nei loro disegni di questi giorni.
Disegni in cui Anita mette fantasia, colore, forme e come dice lei stessa “amore”.

E domani si va al Guggenheim di Bilbao!

Sbagliando si inventa…

La paternità ha rappresentato una svolta nella mia vita.

Vedere comparire il capoccione del mio primo figlio, grande e ovale come un pallone da rugby, e poi prenderlo in braccio pochi istanti dopo il parto ha spalancato, oltre al mio cuore, i miei dotti lacrimali.

Ho pianto per ore, giorni, settimane davanti alla meraviglia della vita condensata in quel piccolo essere umano.

Qualche mese dopo la sua nascita, una volta fatto ritorno sulla superficie terrestre, ho detto ad Ersilia “Nostro figlio non andrà a scuola!” Dopo un primo momento di shock, e grazie all’ossitocina ancora in circolo, si è mostrata disponibile ad ascoltare le mie argomentazioni.

Da quel giorno abbiamo intrapreso un percorso di in-formazione che ci ha portato a conoscere differenti approcci pedagogici.

Abbiamo cominciato a leggere libri, vedere documentari e, soprattutto, a incontrare famiglie che, in Italia e all’estero, avevano già dato vita a progetti alternativi alla scolarizzazione.

Giacomo, nel frattempo, aveva iniziato a frequentare un nido-famiglia quando, nel gennaio 2016, organizzammo il primo incontro rivolto al pubblico presso il liceo Parini di Seregno grazie all’ospitalità di Gianni Trezzi che oltre ad essere un amico è sempre stato un dirigente illuminato e sensibile.

Invitammo come relatore Paolo Mottana, nostro docente ai tempi dell’università, cui chiedemmo di rispondere alla domanda (che per mesi fu anche il nome del nostro gruppo informale) “Un’altra scuola è possibile?”

A quella serata parteciparono oltre cento persone, tra loro tanti insegnanti, e, per fortuna, alcuni genitori interessati e interessanti. Tra questi c’era Iris (che ancora oggi è una delle colonne del nostro sodalizio) e altre famiglie con cui cominciammo a incontrarci ogni settimana.

Nella primavera di quello stesso anno, a seguito di alcune piacevoli chiacchierate con Massimiliano Fratter, folgorato dall’incontro con la pedagogia libertaria, organizzammo un ciclo di conferenze presso il Bosco delle Querce di Seveso.

I nostri interessi si erano ormai focalizzati su alcune tematiche ben precise: approccio pedagogico non direttivo, apprendimento auto-diretto ed educazione in natura.

Nuove famiglie si aggregarono e, grazie all’interessamento dell’allora assessore all’istruzione del comune di Seveso, trovammo finalmente una sede idonea per dare vita, nel settembre 2017, al progetto di libera immersione in natura che stavamo sognando: Samara.

Da allora abbiamo percorso tanta strada, incontrato tante persone grandi e piccole e, inevitabilmente, commesso tanti errori. Solo chi non fa non sbaglia. E proprio a partire dai nostri sbagli abbiamo scoperto nuovi stimoli, nuove direzioni.

Ci hanno sempre guidato la volontà di rispondere ai bisogni dei nostri figli, di dare loro l’amore, la fiducia e il rispetto che meritano.

Nel nostro procedere abbiamo incontrato ostacoli e vissuto momenti di sconforto. Ci ha sempre supportato essere parte di una autentica comunità educante, quella che ormai rappresenta una solida e meravigliosa realtà condensatasi attorno ai progetti di Casa pedagogica.

Il titolo di questo articolo è fuorviante: non ci siamo inventati nulla! Abbiamo tolto anziché aggiungere, ci siamo ritrovati e doverci de-strutturare, a smantellare l’aurea di sacralità (e talvolta di presunzione) che ci apparteneva in quanto “professionisti dell’educazione”.

Abbiamo riscoperto vecchi paradigmi e buona pratiche anziché seguire le mode glitterate del momento.

È vero, però, che nel panorama delle realtà educative progetti come i nostri, che anche in Italia stanno cominciando a trovare diffusione, rappresentano un’alternativa all’istituzione, sono portatori di una carica innovativa, radicale e gioiosamente sovversiva.

Inevitabilmente queste esperienze hanno influenzato la mia professionalità. Chi mi conosce sa che non sono mai stato un maestro particolarmente ortodosso. Oggi vivo in una condizione schizofrenica: da un lato cerco di portare qualche piccolo cambiamento all’interno dell’istituzione contaminandola con quanto di fertile e vivo sta accadendo al di fuori delle mura delle aule scolastiche; dall’altro come padre e responsabile di casa pedagogica, mi godo la bellezza che deriva dal vedere bambini e bambine libere di imparare secondo i propri tempi e i propri interessi.

Questo viaggio è nato dalla necessità di prendere tempo e di volgere lo sguardo altrove e si sta rivelando anche un’occasione preziosa per riflettere su quanto ho fatto fino ad ora.

Senza la pretesa di aver trovato la via migliore ma con la consapevolezza di poter camminare a testa alta, con lo sguardo aperto, respirando aria buona. Ci saranno ancora bivi, inciampi, errori da cui imparare. La voglia di camminare non mi manca. Avanti così.

Sbagliando si impara

Ho iniziato a fare il maestro quasi quindici anni fa. Dopo aver lavorato per anni come educatore, insegnante di teatro e ludotecario mi sono ritrovato ad accettare la proposta di un amico preside per fare alcune supplenze. Mi sono approcciato all’insegnamento con curiosità e voglia di imparare. Due anni dopo mi è arrivata una proposta di assunzione in una scuola paritaria. Ancora oggi sono grato al direttore di quell’istituto per la fiducia che mi ha accordato permettendomi di sperimentare moltissimo e di mettere in pratica metodologie e teorie apprese sui libri o nei corsi di aggiornamento.

È stato a partire da questa esperienza, finalmente stabile e quotidiana, che qualcosa dentro me si è incrinato.
Ho cominciato a pormi domande sul mio ruolo, sulle dinamiche di potere insite nella relazione maestro/alunno, sulla retorica di domande illegittime rivolte con fare inquisitorio a bambini impauriti da chi già conosce la risposta.
Ho capito che qualcosa non andava.
Il punto di partenza è stato vedere come la creatività, la curiosità, la giocosità e il piacere per l’apprendimento dei miei alunni e delle mie alunne andassero scemando pochi mesi dopo il loro ingresso a scuola. Ciò che ho contribuito ad insegnargli è che imparare è una fatica oltre che un dovere. Ho tolto loro tempo e spazio che avrebbero potuto dedicare al gioco spontaneo. Ho fatto tanti errori sulla pelle dei bambini e delle bambine che ho incontrato in quasi quindici anni di insegnamento. In qualche modo sento di aver mancato di rispetto a loro e a me stesso.


Ne ho ricavato a distanza di tempo una nuova consapevolezza.

E la nascita del nostro primo figlio ha accelerato il cambiamento che già era in corso indirizzandomi verso una scelta per nulla facile, complessa, radicale.

Continua…

Verso Nord

[Della contraddizione tra il viaggiare senza meta e la brama, moderna e capitalista, di possederla.]

Siamo partiti ormai oltre due mesi fa senza avere una meta precisa.

Pensare questo viaggio è stata una necessità, un salvagente per la mente e lo spirito dopo lunghi, faticosi mesi di restrizioni.

Ci siamo dati una cornice, uno sfondo: conoscere famiglie e gruppi che come noi hanno scelto l’unschooling e poter raccogliere le loro storie sperando di farne un documentario. Tutto qui.

Non abbiamo pianificato granchè. A chi ci chiedeva quale sarebbe stata la nostra prima tappa rispondevamo ironicamente: Lecco! Solo pochi giorni prima di partire abbiamo pensato di fare sosta a Grumes (TN) che per noi è un luogo speciale, abitato da due amici speciali.

Anche in passato in tutti i viaggi che ho fatto non ho mai programmato niente con largo anticipo. Niente agenzie, niente alberghi, niente tour organizzati, niente pacchetti, niente braccialetti all-inclusive. Forte del mio bagaglio da teatrante ho sempre lasciato ampio spazio all’improvvisazione.

Viaggiare, per me, è aprirsi al mondo. Lasciare che le cose accadano. È con questo atteggiamento che mi sono sempre messo sulla strada. A piedi, in treno, su sgangherati tuk-tuk in Asia o chiassosi e sovraffolati taxi-brousse nell’Africa subsahariana. Può risultare più scomodo, faticoso, lento… ma ne sono sempre stato ripagato. Gli incontri si verificano e ti arricchiscono se sei disponibile a vivere allo stesso ritmo e nelle stesse condizioni delle persone dei luoghi che visiti. Ci sono alcune buone abitudini che pratico durante i miei viaggi e che consiglio a chiunque voglia togliersi gli abiti comodi del semplice turista:

  • Rinuncia alla pizza, ai ristoranti italiani e, ovviamente, a Mc Donald. Assaggia la cucina locale!
  • Impara la lingua! Anche solo qualche semplice frase per salutare, ringraziare sarà molto apprezzata e faciliterà la socializzazione.
  • Se riesci fatti ospitare a casa di qualcuno. Non devi per forza importunare la gente al bar o sui mezzi: esisotono tanti network e portali per farlo. Entrare nelle case permette di conoscere da vicino usi e costumi e spogliarsi dei propri stereotipi. Togliti le scarpe!
  • La fretta del mordi e fuggi non aiuta. Volere visitare tutti i musei, tutte le chiese, fotografare tutti i monumenti non è l’atteggiamento migliore per esplorare un luogo. Se hai tanto tempo a disposizione pemettiti di gironzolare senza meta. Se invece ne hai poco… scegli una panchina, siediti e stai a guardare. Take it easy!

Con Ersilia ci siamo fin da subito trovati d’accordo nel condividere questo stile di viaggio. Certo, ora che siamo genitori, le cose sono un po’ cambiate. Magari non dormo più in parchi pubblici, in spiaggia o nelle stazioni ferroviarie ma non abbiamo rinunciato allo stile essenziale e avventuroso anche solo nelle vacanze estive. Non ci siamo lasciati tentare dagli alberghi family friendly della costiera romagnola… A bordo del nostro inossidabile T3 Westfalia abbiamo cominciato a girare l’Europa anche quando Giacomo aveva solo un anno. Ai campeggi pettinati all’italiana preferiamo aree naturali e sosta libera. Alle piazzole ben delimitiate preferiamo le zone selvatiche.

E comunque a dirla tutta, volente o nolente, neanche io riesco a sottrarmi a quella smania tutta occidentale, consumista e capitalista, di avere una meta da raggiungere. È parte della nostra cultura, è profondamente insito nel nostro modo di essere, di pensare. Siamo abituati ad avere obiettivi da raggiungere, a farlo in fretta, meglio se prima di altri… Altri che sono visti per lo più come rivali, come competitori anzichè come compagni di strada. Riconosco questa attitudine e la considero biasimevole ma non posso dire di esserne del tutto esente. È capitato anche a me, alle volte, arrancando lungo un sentiero di montagna coll’imperativo di arrivare in cima (o anche solo ad un rifugio).

È la brama di fare nostri i luoghi che visitiamo, di possederli, che ci frega. Vogliamo avere tutto, essere dappertutto, vedere tutto per poi postare le foto sui social per far vedere che siamo stati dappertutto.

Ci siamo cascati anche noi venendo a Nordkapp. Non pensavamo di fare tappa in Norvegia, troppo settentrionale e costosa per il nostro budget. Ma l’idea di raggiungere il punto più alto dell’Europa continentale ha cominciato a solleticarci. Il richiamo del Nord si è insinuato nei nostri pensieri.

E cosi eccoci qui. In una meta non prevista oltre cui non si può più proseguire. Con la consapevolezza di aver raggiunto un limite che è solo simbolico, appartiene al nostro immaginario. Un traguardo che una volta toccato rivela la sua effimera ma eccitante essenza.

Ed ora non ci rimane che invertire la rotta e mettere il muso di Joy in direzione Sud.

Nordkapp, 1 settembre 2022

Mi inchino

Ci sono luoghi che ti entrano nel cuore.
Sarà per il tempo che ci hai trascorso, per le sensazioni che hai provato.


Sarà perché ti sei sentita accolta nella tua umana fragilità.
Accolta da una natura potente, avvolgente, magica che sa donarsi con la sua bellezza e generosità dei frutti.
Accolta da persone che incontri più o meno fortuitamente, con le quali ti trovi a condividere l’umana ricerca di stare-nel-mondo, con la consapevolezza che è solo provando (ed errando…) che si può stare, in ascolto e connessi.

E allora quando, durante l’ultima passeggiata nel bosco, tua figlia di 5 anni incomincia a piangere dicendo che le mancheranno questi boschi incantanti; incomincia a salutare con una litania
“Ciao alberi belli,
Ciao muschio bello,
Ciao rocce belle,
Ciao renne belle,
Ciao puolukka belli”;
abbraccia e bacia gli alberi e ad un certo punto s’inginocchia a terra.
Mi sono venute in mente le dolci e intense parole di Chandra Livia Candiani (in “Il silenzio è cosa viva”):
“Inchinarsi è l’occasione per sostare su una soglia, un limite, un luogo di rischio dove si incontra la verità dell’altro senza interpretazione. Il luogo dell’altro è il forse.
Mi inchino per imparare a esitare, a sostare nel non sapere di te, lasciare che tu riveli chi sei.
Mi inchino per onorare la terra, riconoscerne il sostegno, offrirle la mia cura.”
In tutto questo, io non ho potuto che piangere sommessamente, vivendo lo stesso dispiacere ma anche un senso di gratitudine e bellezza per quanto i nostri  occhi e cuori hanno ricevuto!

Mi inchino all’umiltà di Anita,
mi inchino alla bellezza, alla generosità e  alla forza che la Terra ha nel sostenere il nostro procedere!