Come fate senza la scuola?

[Della scelta di rinunciare al percorso di scolarizzazione istituzionale e seguire percorsi meno battuti]

In questo articolo ho scelto di utilizzare il genere femminile quando parlo in generale  di bambini e bambine al posto del maschile nel tentativo di generare una riflessione sul linguaggio che possa essere volano per il cambiamento.

L’articolo scritto da Ersilia e un paio di scambi telefonici con degli amici mi portano ad avere bisogno di mettere nero su bianco alcuni pensieri inerenti alla decisione di non iscrivere Giacomo e Anita a scuola.

Molte persone sono incuriosite da questa scelta e quando poi scoprono la mia professione, la curiosità si trasforma, talvolta, in perplessità.

<< Ma come proprio tu che ci lavori?!>>

<< Sì, proprio perché ci lavoro!>> è la mia risposta.

Conosco bene il mondo scolastico. Faccio il maestro da più di dieci anni. Nella scuola (oltre agli anni trascorsi come studente) ci lavoro da oltre vent’anni sia come educatore, come conduttore di laboratori e come formatore.

Per l’esperienza che ho maturato mi sento di poter dire che la scuola non è il luogo migliore in cui imparare.

Non è mia intenzione però criticare in questo articolo l’istituzione scolastica né tantomeno chi sceglie di affidarcisi. Vorrei piuttosto spiegare quali sono le motivazioni che ci hanno portato a intraprendere un percorso di descolarizzazione e come sia possibile che nostro figlio e nostra figlia imparino nonostante non frequentino la scuola.

Una frase che mi sento spesso rivolgere è << Vabbè ma tu sei un maestro, ci pensi tu ad insegnargli>>.  Niente di più lontano dalla realtà. Facevo già fatica a sostenere questo ruolo a scuola. Ho lavorato a lungo per destrutturami, per scendere dalla predella (si usa ancora in poche scuole ma sopravvive nella testa di molti colleghi) e svestirmi dei panni dell’insegnante. Finché mi è stato possibile farlo ho eliminato la cattedra dalla mia aula, ho ripensato gli arredi, ho abolito astucci e compiti, me ne sono fregato dei programmi, ho introdotto da subito l’autovalutazione e la possibilità di personalizzare il curricolo. Ho sempre trascorso molto tempo fuori dall’aula. Ho dato tanto spazio al gioco. Ho privilegiato gli aspetti emotivi e relazionali a quelli didattici.

Come padre mi è venuto spontaneo non voler diventare il maestro dei miei figli.

Sono convinto che un maestro o un genitore (ma più in generale una persona) possa favorire l’apprendimento nel momento in cui smette di insegnare. Solo se si cambia prospettiva e ci si sposta da una posizione frontale, direttiva, la relazione tra adulto e bambina può generare un apprendimento che sia duraturo, carico di senso, autentico e, non ultimo, gioioso.

Ho fatto in modo che la scuola non interferisse con la mia educazione.

Mark Twain

Scegliere l’autoapprendimento vuol dire, innanzitutto, considerare l’apprendimento un fenomeno normale ed inevitabile. Come respirare, pensare o parlare.

Vuol dire disimparare tutto ciò che abbiamo interiorizzato nella nostra esperienza di persone scolarizzate.

Vuol dire contemplare la possibilità che la scuola non sia l’unico (o il migliore) ente preposto alla formazione.

Scegliere l’autoapprendimento vuol dire dare importanza al gioco spontaneo.

Il gioco è per le bambine, come per tutti i cuccioli di mammifero, la prima modalità utilizzata per imparare.

Peter Gray ha condotto uno studio per comprendere il gioco in quanto metodo di apprendimento e nel suo imprescindibile libro “Lasciateli giocare” ha raccolto molteplici ricerche ed esempi a sostegno della tesi secondo cui le bambine “giocando imparano ad assumere il controllo della propria vita”. [Peter Gray, Lasciateli giocare, Einaudi, 2015]

Quando gli viene data l’opportunità di giocare, di sperimentare e di dirigere i propri percorsi di apprendimento fioriscono letteralmente davanti ai nostri occhi. Sovente noi adulti siamo obnubilati, la nostra visione si fa opaca, viziata com’è dalle aspettative e dalla cultura in cui siamo cresciuti.

Quello che ormai da anni vado ripetendo a docenti e genitori durante i miei corsi di formazione è che il gioco è nutrimento fondamentale per diverse componenti della persona: emotive, relazionali e cognitive.

Ogni bambina si merita di poter crescere e imparare guidata dalla meraviglia e dallo stupore.

Troppo spesso la scuola, con i suoi tempi serrati, con gli obiettivi e gli strumenti uguali per tutti, con le valutazioni sommative (e sommarie), si concentra sul prodotto anziché sul processo.

Certamente la scuola dà sicurezza. Delegare ad altre persone ritenute “specializzate” contribuisce a mettere a tacere molti dubbi.

Diverse persone mi hanno confidato che la paura che li porta a prediligere un percorso eterodiretto (quello in cui sono solo gli adulti che scelgono, dirigono, controllano, valutano) è alimentata da domande tipo: impareranno comunque? E se giocano e basta? Sono in grado di seguirle abbastanza? Gli do abbastanza stimoli?

Forse anche nel nostro modo di essere genitori dovremmo assumere  un atteggiamento minimalista e fare nostra la massima dell’architetto Ludwig Mies van der Rohe “Less is more”…

Mi sorge un dubbio: è forse per contrastare la nostra personale paura che cerchiamo in tutti i modi di attrezzare i nostri figli contro le incertezze del futuro?

Nel tentativo di riempire le loro giornate non lasciamo alle bambine il tempo di vivere la loro infanzia.

Stiamo già pensando al loro futuro. Cosa farà da grande? Riuscirà a cavarsela? Avrà successo?

Anziché tormentarci (e tormentarle) con questi pensieri sarebbe forse meglio focalizzarsi sul qui e ora e provare a capire chi sono oggi le nostre figlie anziché progettare cosa faranno domani.

Lasciare che le bambine guidino i propri percorsi di apprendimento prevede un ingrediente fondamentale: la fiducia.

Io la intendo in tre direzioni.

Occorre avere fiducia nelle nostre figlie. Nella loro innata predisposizione a imparare. Nella loro curiosità che le porta a voler scoprire il mondo e a capire come funziona. Nella loro capacità, man mano che crescono, di discriminare ciò che ritengono utile, interessante, funzionale alle loro ambizioni e scelte di vita.

Occorre avere fiducia in noi stessi. Riscoprire e coltivare la nostra competenza genitoriale. Saper sostare, ascoltare, osservare. Riuscire a fare qualche passo indietro rispetto alle nostre aspettative per lasciare  spazio a quelle delle piccole persone che abbiamo generato. Accogliere le loro inclinazioni, i loro interessi, i loro desideri anche se non coincidono coi nostri. Dovremmo riuscire, parafrasando Maria Montessori, a rimuovere gli ostacoli che potrebbero interferire con il loro apprendimento anziché scavare il solco entro il quale vorremmo condurlo, dirigerlo, imbrigliarlo.

Occorre, infine, avere fiducia nel mondo. Lasciare che ogni incontro porti qualcosa di nuovo, di arricchente. Mi piace pensare che altre adulte e bambine possano essere di stimolo per la curiosità dei nostri figli. Mostrargli cose che io non so o che non amo.

È questo che intendo quando dico che non abbiamo bisogno di maestri ma di persone appassionate ed appassionanti. Persone curiose, capaci di trasudare stupore, di suscitare interesse, di inventare storie e nuovi mondi possibili.

Occorre fiducia.

Se viene a mancare questa fiducia si finisce per vivere accompagnati dalla preoccupazione di non stare facendo abbastanza, di non dare alle nostre figlie tutto ciò di cui hanno bisogno. Ma siamo proprio sicuri che ciò di cui hanno bisogno sia la scuola? Perché? Solo perché “Ci siamo andati tutti” o “si è sempre fatto così”? (punto che meriterebbe un approfondimento visto che la scuola per come la conosciamo e l’abbiamo frequentata noi esiste solo da 3 secoli circa).

Scegliere la scuola, dicevo, vuol dire scegliere di delegare.

Affidarsi ai “professionisti dell’educazione” vuol dire alleggerire il nostro carico di responsabilità genitoriale.

Noi questa delega non la vogliamo praticare. Vogliamo riappropriarci, per noi e per i nostri figli, del diritto di scegliere cosa-quando-come-dove imparare. Lo facciamo di giorno in giorno. Nel pieno rispetto dei nostri tempi, dei nostri interessi delle nostre passioni.

Scegliere l’autoapprendimento significa, secondo me, essere disponibili ad accogliere il caos, il disordine, le attività lasciate a metà, i rifiuti alle proposte. Significa rinunciare alla linearità, agli schemi, alle tabelle, agli orari fissi, ai programmi.

È ormai assodato che l’apprendimento non è un processo lineare. Impariamo per tentativi, accomodamenti, salti avanti e indietro. Scopriamo una cosa mentre ne cercavamo un’altra.

Quando, nei percorsi di formazione rivolti agli insegnanti, chiedo di rappresentare graficamente l’apprendimento, l’immagine che prevale è quella di una linea retta che si muove da sinistra a destra, spesso con moto ascendente.

Personalmente lo visualizzo come una spirale. Rende meglio l’idea di un processo ricorsivo che torna sui propri passi e gradualmente aumenta di complessità.

Scegliere l’autoapprendimento significa allenare lo sguardo.

Vedere apprendimento dove altri vedono tempo perso.

I nostri figli imparano sempre e comunque. Anche a prescindere da noi.

Anita ha imparato a riconoscere le lettere, ad unirle per formare parole, a leggerle e a scriverle. L’ha fatto perché ne era incuriosita. Nessuno glielo ha imposto. Né io né Ersilia le abbiamo detto che avrebbe dovuto farlo perché “ti servirà da grande”.

La stessa cosa è accaduta a Giacomo.

Pur non manifestando grande interesse per la letto-scrittura ha comunque appreso a leggere e scrivere seguendo le proprie motivazioni e i propri tempi. Negli ultimi giorni ha riscoperto l’amore per i fumetti e in due giorni si è letto tre albi di Diabolik.

Per contro ha sempre avuto uno spiccato interesse per i numeri, per i calcoli e, più in generale, per la logica matematica.

Non so dire esattamente da dove sia nata questa passione. Non ci siamo pre-occupati di dirigerla, di formalizzarla. L’abbiamo assecondata. Abbiamo dato insieme un nome alle cose.

Scegliere l’autoapprendimento vuol dire assolvere al proprio ruolo di genitori. Vuol dire dare il buon esempio.

La nostra casa e il nostro camper sono pieni di libri. Abbiamo sempre letto per i nostri figli e continuiamo a farlo quando ce lo chiedono. Lo facciamo perché ci piace, perché crediamo sia un importante veicolo di emozioni e rinforzi la nostra relazione. Non ho mai pensato per un solo minuto di rifiutare di leggere per loro per fare in modo che fossero spronati a imparare leggere da soli.

Il piacere per la lettura, e forse ancor di più il suo aspetto relazionale, è emerso da qualche mese a questa parte anche nella proposta che talvolta i nostri figli ci hanno rivolto di voler leggere per noi.

Durante questi mesi, così come durante la frequenza a g.a.i.a., non abbiamo mai deciso a priori cosa i nostri figli avrebbero dovuto imparare. Non seguiamo nessun programma. Quando facciamo delle proposte è, nella maggior parte dei casi, sulla base degli interessi che abbiamo visto emergere in loro. Altre volte sono i nostri interessi e le nostre passioni a portarci a coinvolgerli in alcune esperienze. L’esposizione ad un ambiente ricco di stimoli differenti può generare curiosità e voglia di conoscere. Man mano che si presentano nuovi interessi e spunti interessanti cerchiamo di coglierli, di stare in ascolto e di rilanciarli con nuove esperienze, nuove scoperte.

Faccio un esempio: inizialmente non avevamo messo in programma di andare a Parigi. Tendiamo ad evitare le grandi città perché non sono sempre facili da visitare col camper.

Anita e Giacomo volevano salire sulla torre Eiffel che spesso avevano visto in uno dei loro cartoni animati preferiti.

Grazie anche alla generosa donazione della famiglia di Ersilia ci siamo potuti permettere di accogliere la loro richiesta.

Per Giacomo si è trasformata in un’occasione per dare seguito ai suoi interessi: contare i gradini, informarsi sulle misure, confrontarle con altri monumenti, osservare gli enormi bulloni, interrogarsi sul funzionamento dell’ascensore. Anita, guardandosi intorno alla ricerca di Ladybug, si è lasciata suggestionare dalla maestosità e dall’imponenza della torre che è stata oggetto dei suoi disegni nei giorni successivi. Si è poi dovuta cimentare con i calcoli volendo acquistare i celebri macarons nel bar (costosissimo!) del secondo piano.

A questa esperienza abbiamo affiancato la visita a due musei (Pompidou e D’Orsay) che loro non avrebbero probabilmente visitato. Non era nostra intenzione istruirli sulla storia dell’arte ma inevitabilmente il nostro entusiasmo e l’immersione in una dimensione estetica li ha profondamente coinvolti. A distanza di tempo hanno richiamato alla memoria quelle esperienze, menzionando quadri, autori e stili.

Crediamo che non serva essere dei tuttologi, ce ne sono già troppi al mondo, e che se anche i nostri figli non impareranno tutto ciò che potrebbero imparare a scuola sapranno colmare eventuali lacune, se lo vorranno. Prediligiamo la qualità alla quantità. Non esistono, a mio modo di vedere, saperi imprescindibili. Ciascuno impara ciò che gli serve per stare a proprio agio nella società in cui vive.

Quello che con Ersilia cerchiamo di fare è semplicemente stare. Stare a guardare: osserviamo i nostri figli che imparano con curiosità e gioia. Così come abbiamo fatto quando hanno imparato a parlare o a camminare. Stiamo nello stupore. Stiamo nell’attesa. Stiamo nella noia, nella frustrazione.  Lavoriamo su di noi piuttosto che sui nostri figli. Abbiamo imparato (o meglio stiamo imparando) a rinunciare alle aspettative sulle persone che saranno, che vorremmo diventassero.

Stare vuol dire anche essere presenti, svegli, consapevoli, disponibili. Significa allenarsi ad osservare, essere in ascolto, avere l’umiltà di ammettere di non avere tutte le risposte ma al contempo essere disponibili a porsi nuove domande, a dubitare, ad accogliere ipotesi che ad uno primo impatto possono sembrare assurde.

L’esperienza del viaggio ci ha confermato che è un contesto particolarmente favorevole. Ci piace essere aperti agli incontri e alle novità che questo tipo di esperienza ci riserva.

Siamo dei privilegiati, lo sappiamo.  Siamo anche consapevoli, però, che le cose non accadono per caso. Fare questo viaggio è stata una scelta.

Abbiamo dovuto rinunciare ad alcune cose (tipo lo stipendio…) a favore di un’esperienza che ci ha arricchito, ci regalato tanta bellezza e la ricorderemo per tutta la vita.

Scegliere l’autoapprendimento è, in definitiva, un grande salto nel vuoto.

Vuol dire abbandonare la strada battuta per avventurarsi lungo sentieri poco esplorati e poco frequentati.

È una scelta costellata di domande, di responsabilità e di fatiche.

Tutto ciò che osserviamo ci incoraggia e ci sprona a continuare a percorrere questo sentiero. Speriamo di incontrare un numero sempre maggiore di uomini e donne che abbiamo voglia di camminare con noi.

Avanti così!